– Come giustifichi, in seno alla tua arte, la coesistenza tra più generi musicali?
Parecchi anni fa, era più difficile connettere diversi generi musicali. In seguito, ho compreso che è una grande ricchezza. La parte interpretativa, per chi canta o recita, ha a che fare con un testo vero e proprio, come un “filo” che attraversa i vari generi: la parte profonda dell’anima. Ho cantato (come personaggio di “Calpurnia”) al “Giulio Cesare” di Shakespeare, per Giorgio Albertazzi, il quale diceva che, prima di entrare in scena, “dimenticava tutto”, come in fase di trance. Io stessa ho sperimentato qualcosa di simile: ha importanza il fatto di entrare in una sorta di “altra dimensione”, una parte di me che fa sì che io reinterpreti e reinventi il brano in questione, in base allo stato d’animo, mio e del pubblico. Ci sono momenti magici, in cui accade qualcosa di mai espresso in precedenza. Naturalmente, in ogni genere musicale, vi sono delle difficoltà.
Nella classica, vi è il teatro, con uno studio interpretativo ed introspettivo: occorre la preparazione a livello tecnico-vocale. Una volta fatto ciò, serve dimenticare, lasciando uscire una parte di sé: siamo un “tramite” tra la musica scritta e il personaggio che si impersonifica. Credo che, quando si è in scena, esca ciò che si è, e quanto si è preso dal vivere, insieme alla nostra vita. Ci vuole una certa libertà di esprimersi. Noi esecutori abbiamo il compito di “svuotarci” del nostro io, come se fosse un percorso “estatico” che presuppone una crescita interiore.
Un altro esempio può essere dato dalla musica brasiliana (gli standard jazz, i cantautori): è come interpretare una poesia. Quando si superano i limiti tecnici, il modo dell’espressività e di vivere un brano, è molto simile.
Nell’opera lirica, invece, dal punto di vista tecnico e fonico, ciò è più complesso. Il fatto di creare una sorta di “magia” accomuna tutti questi stili musicali: occorre “calarsi” nel proprio personaggio, a prescindere dal genere in questione. L’aspetto interpretativo è profondo: si vede la situazione e si entra in quella dimensione emotiva e spirituale adatta a quel momento.
– Com’è giunta l’idea di diventare insegnante di canto, alla luce delle tue esperienze?
Sono “cresciuta” insieme alla musica, nella mia vita: più che “insegnare”, è “trasmettere” degli insegnamenti. Ma ci deve essere altro. Nel percorso della mia esistenza, il mondo dell’arte e della musica mi ha salvato. È uno strumento anche per aiutare le altre persone. Il mio metodo si chiama “Cantharmony”: se insegno ad una persona che non ha mai cantato, ma che è molto motivata, si sbloccano le rigidità della stessa, dal punto di vista emotivo. Spesso, il “chakra” della gola, durante la fase di crescita (dall’infanzia all’adolescenza) rischia di bloccarsi, come “non detto” o “non comunicato”. Si tratta di un aspetto psicofonico che comporta l’insorgere di questi blocchi: io lavoro per eliminare esattamente quest’aspetto, come tecnica (anche olistica) di crescita tecnicovocale e posturale. Nei primi anni di Conservatorio, mi hanno proposto un corso (precedentemente) dal titolo “Portamento, dizione e canto a scopo psicoterapeutico” con dei ragazzi di 3° media, adottando anche tecniche di “training autogeno”. Ho accettato, provando su di me stessa molti degli insegnamenti: non vi è un “giusto” o uno “sbagliato”, ma la liberazione della propria voce. Il beneficio che ne deriva ha delle ripercussioni positive sulla vita: il soggetto riesce ad affermare se stesso, liberando i blocchi emotivi.
Ad ogni modo, ancora oggi, sono grata alla vita per aver frequentato il Conservatorio “Alfredo Casella” dell’Aquila, imparando il canto lirico: si tratta di un grande bagaglio. Il tutto, contemporaneamente al mio lavoro: nei miei anni di formazione, ero nell’amministrazione di una “casa di cura” privata, convenzionata con le “ASL”. In seguito, il mio intento era concludere gli studi. Per laurearmi, mi sono licenziata e, dopo il diploma, continuavo a cantare. Mi sono dedicata solo allo studio classico, per poi vincere il “Lirico sperimentale” di Spoleto (concorso europeo), che è stata una grande esperienza. Ho debuttato nei panni di “Carmen” nella “Tragédie de Carmen”, rivisitata da Peter Brook e Marius Constant, che hanno trattato l’opera teatrale di Bizet, rifacendosi al libretto e alla novella di Prospère Merimé. Quest’ultimo ha vissuto la sua storia in prima persona, conoscendo la giovane Carmen; ha scritto questa novella (la protagonista è, dunque, realmente vissuta).
– Cosa rappresenta, per te, il canto jazz?
Il canto “jazz”, per me, rappresenta la libertà. Ogni volta in cui lo si pratica, in base all’ambiente esterno, “scatta” qualcosa -come nell’improvvisazione, del resto-. Deve essere libero: dopo aver studiato la parte armonica, lo si può modificare a piacimento. In un certo senso, è come se facesse “volare”. Occorre studiare, imparare e, paradossalmente, “dimenticare”. Un giorno, mi stavo esibendo con “Summertime” insieme a Riccardo Biseo (pianista). Come per magia, insieme, abbiamo creato una situazione, a livello musicale, irripetibile: Biseo ha iniziato il suo “viaggio” nell’eseguire questo brano, io ho compreso di poterlo “seguire”, e questo ha conferito unicità a tale momento. Purtroppo, non esiste un’incisione discografica di tale “momento musicale”.
– Hai dei programmi per i prossimi mesi?
Concerti e/o spettacoli?
A settembre, un concerto lirico (duetti e arie d’opera). Insieme al pianista classico Davide Clementi, stiamo impostando un repertorio di musica da camera (prevalentemente, De Falla), con un repertorio variegato. Ho avuto un grande gruppo di tango (soprattutto, musica di Piazzolla arrangiata in jazz) con debutto lo scorso aprile. Ci sono voluti anni per ricostituirlo, in seguito alla morte di Claudio Catalli, un grande fisarmonicista, parte del nostro gruppo, “Jazz and Tango Reunion”. Ho inventato il Concerto “Vuelvo Al Sur”, “Ritorno al Sud” vissuto come “Sud del mondo”: quest’ultimo è per me fondamentale, in quanto sono siciliana. In tale concerto, abbiamo unito brani siciliani, argentini e sudamericani, per rimarcare il colore, il calore e il sapore del Sud.
Sulla base di questo grande successo, vorrei ideare ulteriori concerti che riproducano la stessa atmosfera.Stefano Chiesa al “Giornale letterario